LA CORTE D'APPELLO
   Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nella causa civile di prima
 istanza iscritta  al  n.  3105  di  ruolo  generale  per  gli  affari
 contenziosi   dell'anno  1988,  posta  in  deliberazione  all'udienza
 collegiale del 31 maggio 1989, vertente  tra  la  S.r.l.  Immobiliare
 Fondazione  Capocotta  in  persona  del  suo  legale  rappresentante,
 amministratore unico rag. Ruggiero Moscatelli rappresentata e  difesa
 per  procura  a margine dell'atto di citazione e di opposizione dagli
 avvocati Lionel Ceresi, Pietro Cattaneo,  Giorgio  Pinotti,  Leonardo
 Cattanei  di  Milano  e  Vincenzo  Marone,  presso il quale ultimo e'
 elettivamente domiciliata in Roma, via Germanico n.  197,  opponente,
 contro:   1)   Ministero  delle  finanze,  in  persona  del  Ministro
 pro-tempore, rappresentato e difeso  dall'avvocatura  generale  dello
 Stato  presso  la quale e' domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n.
 12, opposto; 2) Prefetto di Roma, contumace.
    Oggetto: Opposizione alla stima di indennita' di esproprio;
    Esaminati  gli  atti  del  procedimento  civile  n. 3105/1988 r.g.
 avente  ad  oggetto  l'opposizione  alla  stima  di   indennita'   di
 espropriazione;
    Letti gli atti difensivi delle parti;
                             O S S E R V A
    1.  -  La  vicenda  espropriativa  che  forma oggetto del presente
 processo trae origine dalla  legge  23  luglio  1985,  n.  372,  che,
 all'art.  5,  dispone  che  alla dotazione immobiliare del Presidente
 della  Repubblica,  di  cui   all'art.   84,   ultimo   comma   della
 Costituzione,  e'  conferita  la  tenuta di Capocotta ad integrazione
 della adiacente  tenuta  di  Castelporziano  gia'  in  dotazione  del
 Presidente  della  Repubblica  (primo  comma). Lo stesso art. 5, dopo
 avere stabilito che l'ampliamento della tenuta di  Castelporziano  e'
 dichiarato  di  pubblica utilita' e le relative opere sono dichiarate
 indifferibili e urgenti (secondo comma),  autorizza  l'espropriazione
 dei  beni  compresi  nell'area delimitata in base ai confini indicati
 nella stessa legge (terzo comma)  e  prescrive  che  l'indennita'  di
 espropriazione  e'  determinata  in  base  all'art. 13 della legge 15
 gennaio 1885, n. 2892 (quinto comma),  richiamando,  per  quanto  non
 diversamente  previsto, le norme di cui alla legge 25 giugno 1865, n.
 2359 (sesto comma).
    Con  l'opposizione, la cui cognizione e' attribuita a questa Corte
 dall'art. 5, ottavo comma, della citata legge n. 372/1985,  e'  stata
 sollevata   la   questione   di   legittimita'  costituzionale  della
 disposizione contenuta nel quinto comma  dell'art.  5  che,  ai  fini
 della  determinazione dell'indennita' di esproprio, rende applicabili
 i criteri dettati dall'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n.  2892:
 quest'ultima  disposizione  stabilisce, com'e' noto, che l'indennita'
 dovuta ai proprietari degli immobili  espropriati  sara'  determinata
 sulla  media  del  valore  venale  e dei fitti coacervati dall'ultimo
 decennio o, in difetto,  dell'imponibile  netto  agli  effetti  delle
 imposte sui terreni e sui fabbricati.
    Premesso  che  la  questione e' sicuramente rilevante nel presente
 giudizio,   in   quanto   ha   diretta    e    immediata    influenza
 sull'applicazione  dei  criteri  in  base  ai  quali  deve liquidarsi
 l'indennita' di esproprio e, quindi, sulla definizione della causa di
 opposizione  alla  stima,  deve sottolinearsi che un primo profilo di
 incostituzionalita' e' stato prospettato con riferimento all'art. 42,
 terzo    comma,   della   Costituzione,   essendo   stato   sostenuto
 dall'opponente che  l'attribuzione  di  una  indennita'  inferiore  a
 quella  corrispondente  al valore di mercato dell'immobile risulta in
 contrasto con il  principio  costituzionale  sancito  dalla  predetta
 norma  secondo  cui  "la  proprieta'  privata  puo'  essere, nei casi
 preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi  di
 interesse generale".
    Il dubbio di incostituzionalita' non ha giuridica consistenza e la
 relativa questione e'  manifestamente  infondata  nei  termini  sopra
 enunciati.
    La  giurisprudenza  della  Corte  costituzionale  ha costantemente
 interpretato il termine "indennizzo", che figura nella citata  norma,
 in   termini   tali  da  escludere  che  esso  debba  necessariamente
 corrispondere al valore  venale  del  bene  espropriato,  secondo  il
 criterio  accolto  dall'art.  39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359.
 Gia' a partire dalla sentenza n. 61 del 25 maggio 1957, la  Corte  ha
 chiarito  che  la  necessita' di coordinazione col pubblico interesse
 comporta   che   l'indennizzo   non   puo'   significare    integrale
 risarcimento,  ma  soltanto il massimo di contributo e di riparazione
 che, nell'ambito degli  scopi  di  interesse  generale,  la  pubblica
 amministrazione  puo'  garantire  all'interesse privato: ditalche' e'
 rimessa al legislatore ordinario la valutazione comparativa  di  tali
 interessi  e  del  modo  in cui pervenire al massimo della rispettiva
 soddisfazione sulla base  della  ponderazione  di  elementi  tecnici,
 economici, finanziari, politici. E' stato, peraltro, precisato che il
 potere discrezionale del legislatore  ordinario  incontra  un  limite
 nell'esigenza   che  la  misura  dell'indennizzo  non  sia  puramente
 simbolica, atteso che in una siffatta  ipotesi  l'indennizzo  sarebbe
 sostanzialmente  inesistente  e la norma colliderebbe inevitabilmente
 con  il  precetto  contenuto  nell'art.  42,   terzo   comma,   della
 Costituzione.
    I principi affermati nella sentenza n. 61/1957 sono stati ribaditi
 nella   successiva   produzione   giurisprudenziale    della    Corte
 costituzionale   con   la   quale  l'identificazione  dell'ambito  di
 operativita' della garanzia che presidia il diritto  dell'espropriato
 e'  stata  compiuta  sottolineando la necessita' che l'indennizzo sia
 "congruo", "equo", "adeguato", "non irrisorio" (Corte  costituzionale
 9  luglio 1959, n. 41; 8 luglio 1969, n. 115; 24 giugno 1976, n. 155;
 6 dicembre 1977, n. 138).
    Gli sviluppi di tale linea interpretativa hanno condotto alla nota
 pronuncia  n.  5  del  30  gennaio  1980  con  cui,  nel   dichiarare
 l'illegittimita'  costituzionale delle norme contenute nella legge 22
 ottobre 1971, n. 865, che recepiscono il criterio del valore agricolo
 medio  per  la  determinazione dell'indennita' di esproprio, la Corte
 costituzionale   ha   precisato    che    "l'indennizzo    assicurato
 all'espropriato dall'art. 42, terzo comma, della Costituzione, se non
 deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita -  in
 quanto  occorre coordinare il diritto del privato con l'interesse che
 l'espropriazione mira a realizzare - non puo' essere tuttavia fissato
 in  una  misura irrisoria o meramente simbolica ma deve rappresentare
 un serio ristoro", dovendo essere determinato  con  riferimento  alle
 caratteristiche  essenziali  e  alla  destinazione economica del bene
 espropriato.
    Le  medesime  linee  argomentative costituiscono il supporto delle
 piu'  recenti  decisioni  della  Corte  costituzionale  nelle   quali
 l'indicazione dell'esigenza insopprimibile del serio ristoro a favore
 del soggetto  che  subisce  l'espropriazione  e'  accompagnata  dalla
 precisazione   che   questo   non   deve   necessariamente   tradursi
 nell'attribuzione dell'integrale valore  effettivo  del  bene  (Corte
 costituzionale  21  dicembre 1985, n. 355; 30 luglio 1984, n. 231; 19
 luglio 1983, n. 223).
    2.  - La scelta del criterio per la determinazione dell'indennita'
 di esproprio degli  immobili  compresi  nella  tenuta  di  Capocotta,
 compiuta  con  l'art. 5, quinto comma, della legge 23 luglio 1985, n.
 372, non appare in contrasto con la disciplina  posta  dall'art.  42,
 terzo  comma,  della Costituzione a tutela del diritto all'indennizzo
 riconosciuto all'espropriato.
    Occorre  premettere  che non ha fondamento la censura rivolta alla
 legge n. 372/1985 che, facendo richiamo all'art. 13  della  legge  n.
 2892  del 1885 sul risanamento di Napoli, sarebbe inficiata dal vizio
 di eccesso di potere legislativo per avere ripristinato  disposizioni
 ormai  abrogate  (come,  appunto,  quella  per  Napoli)  e  per avere
 sovvertito l'ordine delle fonti del diritto,  determinando,  in  modo
 surrettizio  e  indiretto,  la  reviviscenza  di  quelle disposizioni
 mediante una legge che ad  esse  fa  riferimento  e  la  cui  vigenza
 presuppone.
    Anche  a  non  voler  tener  conto  della  disparita'  di opinioni
 esistente in dottrina sulla figura dell'eccesso di potere legislativo
 e   dell'estrema   cautela  riscontrabile  sullo  stesso  tema  nelle
 posizioni della giurisprudenza, non sembra dubbia l'insussistenza del
 vizio   denunciato  essendo  evidente  che  dal  sistema  su  cui  e'
 imperniata la gerarchia delle fonti del diritto non possono inferirsi
 limiti  che  precludano  al  legislatore ordinario di ripristinare la
 vigenza di norme gia' abrogate sia attraverso il fenomeno della  vera
 e  propria  reviviscenza  che  mediante  l'emanazione  di  una  nuova
 disciplina,  autonoma  nel  fondamento  formale  ancorche'  in  tutto
 ricalcata  sul contenuto di disposizioni precedentemente abrogate. In
 una  siffatta  situazione  potrebbe  configurarsi  una   ipotesi   di
 illegittimita'  costituzionale  soltanto  se  il  legislatore facesse
 rivivere norme gia' dichiarate incostituzionali dalla Corte,  essendo
 stato  chiarito  che dal primo comma dell'art. 136 della Costituzione
 deriva che "le decisioni di accoglimento hanno  per  destinatario  il
 legislatore  stesso,  al  quale  e',  quindi,  precluso  non  solo il
 disporre che la norma dichiarata incostituzionale conservi la propria
 efficacia,   bensi'   il   perseguire  e  il  raggiungere,  anche  se
 indirettamente, esiti corrispondenti a quelli  gia'  ritenuti  lesivi
 della  Costituzione" (Corte costituzionale 19 luglio 1983, n. 223; 30
 maggio 1963, n. 73).
    L'art.   5,  quinto  comma,  della  legge  n.  372/1985  non  puo'
 considerarsi,   tuttavia,   inficiato   da   un   simile   vizio   di
 incostituzionalita'  in  quanto  i criteri dettati dall'art. 13 della
 legge 15 gennaio 1885, n. 2892, espressamente recepiti alla  predetta
 disposizione,  hanno  superato  il  vaglio  del  giudizio della Corte
 costituzionale e sono stati riconosciuti compatibili con il  precetto
 ex  art. 42, terzo comma, della Costituzione (Corte costituzionale 18
 febbraio   1960,   n.   5:    l'infondatezza   della   questione   di
 costituzionalita'  e' stata dichiarata, incidentalmente, anche con la
 sentenza n. 15 del 22 gennaio  1976  concernente  l'art.  14,  ultimo
 comma,  della  legge 28 luglio 1967, n. 641, che, nel disciplinare le
 espropriazioni relative all'edilizia scolastica e  universitaria,  ha
 richiamato   i  criteri  per  la  determinazione  dell'indennita'  di
 esproprio fissati dall'art. 13  della  legge  sul  risanamento  della
 citta' di Napoli).
    3.  -  Va  rilevato,  a questo punto, che dubbi sulla legittimita'
 costituzionale dell'art. 5, quinto comma, della legge n. 372/1985 non
 possono   essere   giustificati   neppure   attraverso   il  richiamo
 dell'indirizzo giurisprudenziale  col  quale  -  mediante  un'analisi
 ricostruttiva   del   vigente   sistema  normativo  risultante  dalle
 dichiarazioni di  incostituzionalita'  delle  norme  contenute  nella
 legge  n.  865/1971  -  e'  stato  stabilito  che  per  le  aree  con
 destinazione edificatoria l'indennita' deve  essere  liquidata  sulla
 base  del  valore  venale  del bene espropriato, secondo la normativa
 generale posta dall'art. 39 della legge  25  giugno  1965,  n.  2359:
 pertanto,   ad   avviso   dell'opponente,   nell'attuale   quadro  di
 riferimento normativo, dovrebbe considerarsi in conflitto con  l'art.
 42,  terzo comma, della Costituzione, qualsiasi disposizione di legge
 che determini la misura dell'indennita' di esproprio  in  un  importo
 inferiore a quello corrispondente al valore di mercato del bene.
    La  tesi  non  puo'  essere  condivisa  nell'impostazione  e negli
 sviluppi, in quanto muove dall'errato  presupposto  che  l'evoluzione
 giurisprudenziale   possa   avere   avuto  incidenza  innovativa  sul
 contenuto della  norma  sancita  dall'art.  42,  terzo  comma,  della
 Costituzione,   sino   al   punto  da  far  coincidere,  puramente  e
 semplicemente, l'indennita'  dovuta  all'espropriato  con  il  valore
 venale  del  bene:  questo,  cioe',  indicato  quale  unico  criterio
 indennitario dall'art. 39 della legge del 1865,  sarebbe  divenuto  -
 nell'attuale   sistema   del   "diritto   vivente"   -  un  principio
 costituzionale da cui il legislatore non potrebbe piu' discostarsi.
    Le argomentazioni esposte devono essere disattese per il fatto che
 confondono i  diversi  piani  sui  quali  sono  chiamati  ad  operare
 l'interprete  e  il  legislatore  e  trascurano  di tener conto della
 differente     valenza     giuridica     attribuita,      all'interno
 dell'ordinamento,  ai  rispettivi  interventi.  In particolare, e' da
 sottolineare che, a seguito delle pronunce di incostituzionalita' dei
 criteri  di  indennizzo  fissati  dalla  legge n. 865/1971, l'opzione
 interpretativa  compiuta  dalla   giurisprudenza   a   favore   della
 sopravvivenza della legge generale del 1865 e del criterio del valore
 venale da essa sancito costituisce  probabilmente  l'unica  soluzione
 possibile  per  l'interprete  al  fine  di superare i vuoti normativi
 prodottisi nel sistema in dipendenza  della  perdurante  inerzia  del
 legislatore,  essendo  interdette, in sede giurisdizionale, le scelte
 discrezionali ritenute piu' idonee  ad  assicurare  il  bilanciamento
 degli  interessi  in conflitto e a individuare il punto di equilibrio
 nel  quale  possano  essere  contemperati   l'interesse   individuale
 dell'espropriato e l'interesse generale sotteso alla funzione sociale
 della  proprieta'.  Tuttavia,  simili  scelte,   traducentisi   nella
 possibilita'   di  riconoscere  un  indennizzo  inferiore  al  valore
 effettivo del bene, non possono considerarsi precluse al legislatore,
 come,   del   resto,   ha   piu'   volte  ribadito  la  stessa  Corte
 costituzionale, anche dopo la fondamentale pronuncia del 1980, quando
 ha  precisato,  in  termini  espliciti,  che  "la  Corte  non  ha mai
 ritenuto, ne' intende ora affermare, che il serio ristoro,  garantito
 al  privato,  debba  corrispondere all'integrale valore effettivo del
 bene espropriato", sottolineando che "detto valore  viene  bensi'  in
 rilievo,  ma come criterio di riferimento, e non necessariamente come
 misura nella determinazione  dell'indennita':  il  legislatore.  .  .
 gode,  allora,  entro  i  limiti  stabiliti  in  Costituzione,  della
 discrezionalita' di valutazione che giova a  contemperare  la  scelta
 del  valore  effettivo  con l'adozione di un qualche altro meccanismo
 normativo, sempre in modo, beninteso, che l'ammontare dell'indennizzo
 non  scada  sotto  l'indispensabile  livello  di  congruita'"  (Corte
 costituzionale  30  luglio  1984,  n.  231:   cfr.   altresi'   Corte
 costituzionale  19  luglio  1983,  n.  223,  secondo cui l'indennizzo
 richiesto dal terzo comma dell'art. 42 della  Costituzione  non  deve
 essere  necessariamente  pari  al giusto prezzo di mercato secondo la
 prescrizione  dell'art.  39  della  legge   n.   2359/1865,   essendo
 sufficiente  la  previsione  di  un  ristoro serio). Su questa stessa
 linea e', del resto, collocata anche la giurisprudenza della Corte di
 cassazione che, nell'affermare che l'art. 39 della legge del 1865 non
 e' in contrasto con l'art. 42, terzo comma,  della  Costituzione,  ha
 precisato,   conformemente   al   costante   indirizzo   della  Corte
 costituzionale,  che   tale   precetto   costituzionale   affida   al
 legislatore  ordinario  la  concreta quantificazione dell'indennizzo,
 fra  un  limite  minimo,  rappresentato  da  un'apprezzabile  e   non
 simbolica compensazione della perdita del bene, ed un limite massimo,
 rappresentato dall'effettiva entita' di tale perdita (Cass. 3  giugno
 1988, n. 3785; 26 gennaio 1988, n. 671; 11 agosto 1982, n. 4525).
    Cosi'  individuato  l'effettivo  contesto normativo al cui interno
 deve essere condotto il giudizio di non manifesta infondatezza  della
 questione di legittimita' costituzionale del quinto comma dell'art. 5
 della legge  n.  372/1985,  va  rilevato  che  tale  disposizione  ha
 recepito  un  criterio di determinazione dell'indennita' di esproprio
 (media tra il valore venale del bene e i fitti  dell'ultimo  decennio
 o, in difetto, l'imponibile netto ai fini delle imposte sui terreni o
 sui fabbricati) che non puo' considerarsi in collisione con la  norma
 ex  art.  42, terzo comma, della Costituzione, non potendo certamente
 qualificarsi  come   indennizzo   meramente   simbolico,   apparente,
 irrisorio,  non  serio,  secondo le diverse aggettivazioni ricorrenti
 nelle decisioni della Corte costituzionale per definire il  contenuto
 e  l'ambito di operativita' della garanzia costituzionale che assiste
 il diritto all'indennita' di esproprio.  In  tale  prospettiva,  deve
 altresi'  precisarsi  che  il  riferimento  al valore venale del bene
 espropriato, assunto quale uno dei parametri nella media del  calcolo
 dell'indennita',  non  solo  esclude  che  questa possa ridursi ad un
 valore monetario simbolico e assolutamente incongruo, ma ne assicura,
 nel contempo, l'aderenza alle specifiche caratteristiche del bene, in
 se'  considerato.   Al   riguardo,   e'   opportuno   richiamare   le
 considerazioni   svolte   dalla  stessa  Corte  costituzionale  nella
 decisione con cui e'  stata  dichiarata  infondata  la  questione  di
 costituzionalita'  dell'art.  4,  primo  comma,  del r.d.-l. 8 luglio
 1931, n. 981, convertito  nella  legge  24  marzo  1932,  n.  355,  e
 dell'art.  1, terzo comma del d.-l. 29 marzo 1966, n. 128, convertito
 nella legge 26 maggio 1966, n. 366, nelle parti in  cui  stabiliscono
 che  l'indennizzo  da corrispondere per le espropriazioni disposte in
 attuazione dei  piani  particolareggiati  nella  citta'  di  Roma  si
 liquida  con  un  sistema  di  calcolo simile a quello previsto dalla
 legge del 1885 per il risanamento di Napoli (media del valore  venale
 e  dell'imponibile  netto  accertato  alla data del predetto r.d.-l.,
 capitalizzato ad un tasso dal 3,50% al 7% a seconda delle  condizioni
 dell'edificio  e  della localita'). Infatti, nella sentenza predetta,
 la Corte ha osservato che "il riferimento al valore venale del  fondo
 fuor   di   dubbio   consente,  sulla  base  di  dati  oggettivamente
 accertabili, che  la  liquidazione  si  avvicini  adeguatamente  alla
 realta'  ad attualita' dei valori economici" (Corte costituzionale 30
 luglio 1981, n. 160).
    Alla   luce   di   tutti   gli  argomenti  sin  qui  svolti,  deve
 conclusivamente  riconoscersi  che  e'  manifestamente  infondata  la
 questione di costituzionalita' dell'art. 5, quinto comma, della legge
 23 luglio 1985, n. 372, sollevata con riferimento all'art. 42,  terzo
 comma, della Costituzione, in quanto l'indennita' determinabile sulla
 base  della  predetta  disposizione  non  appare  in  contrasto   con
 l'effettiva portata della norma costituzionale.
    4. - I dubbi sulla legittimita' costituzionale dell'art. 5, quinto
 comma, della legge n. 372/1985 appaiono, invece,  non  manifestamente
 infondati  quando tale norma sia esaminata con riferimento all'art. 3
 della Costituzione, atteso che, in tale diversa ottica, lo  specifico
 criterio  di determinazione dell'indennita' di esproprio, anche se in
 se' non contrastante col precetto ex  art.  42,  terzo  comma,  della
 Costituzione,  sembra  dare  origine ad una disparita' di trattamento
 non giustificata da alcun ragionevole fondamento.
    Per una migliore comprensione della questione occorre rilevare che
 la legge 25 giugno 1865, n. 2359, aveva stabilito,  in  sintonia  con
 l'art.  29 dello Statuto albertino, il principio generale secondo cui
 l'indennita' di espropriazione deve coincidere con il  valore  venale
 realizzabile  dalla  vendita  del  bene in una libera contrattazione.
 L'unitarieta' di detto criterio indennitario, cui era  conformato  il
 sistema  delle  espropriazioni, fu ben presto intaccata da successive
 leggi speciali con le quali furono  adottati  criteri  divergenti  da
 quello  del  valore  venale:  la  prima,  in  ordine  di  tempo  e di
 importanza, e' stata la legge  15  gennaio  1885,  n.  2892,  per  il
 risanamento  della  citta' di Napoli. Il processo di diversificazione
 dei criteri di determinazione  dell'indennita'  ha  avuto,  poi,  una
 progressiva  accelerazione  attraverso  numerose  deroghe introdotte,
 volta per volta, in relazione a singole categorie di opere  pubbliche
 alle quali le espropriazioni erano finalizzate.
    Un   momento   fondamentale  nella  disciplina  della  materia  e'
 rappresentato dall'entrata in vigore della legge 22 ottobre 1971,  n.
 865,  modificata  dalla  legge  28  gennaio  1977, n. 10, che ha reso
 omogenei  i  criteri  indennitari   stabilendo   il   principio   che
 l'indennita'  deve  essere determinata sulla base del valore agricolo
 medio dell'immobile, anche per le aree comprese  nei  centri  urbani.
 Tale    criterio,    applicabile    originariamente   soltanto   alle
 espropriazioni realizzate per le finalita' indicate nell'art. 9 della
 stessa  legge n. 865/1971, con legge 27 giugno 1974, n. 247, e' stato
 esteso  a  tutte  le   espropriazioni   comunque   preordinate   alla
 realizzazione  di  opere  o di interventi da parte dello Stato, delle
 regioni, delle province, dei comuni o di altri  enti  pubblici  o  di
 diritto pubblico, anche non territoriali.
    Con  le  leggi  del  1971  e del 1974 e' stato, quindi, attuato un
 regime giuridico unitario in  materia  di  indennita'  di  esproprio,
 conformemente  agli  auspici  di  una larga parte della dottrina, che
 aveva  segnalato  da  tempo,  in  posizione  critica  rispetto   agli
 interventi  della Corte costituzionale, che la pluralita' dei criteri
 indennitari, distinti sulla sola base delle singole  opere  pubbliche
 da  realizzare,  si  traduceva  in  vere  e  proprie  violazioni  del
 principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
    Tale assetto normativo ha subi'to profonde modificazioni a seguito
 della piu'  volte  citata  sentenza  della  Corte  costituzionale  n.
 5/1980,  con  cui e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale
 del criterio del valore agricolo medio,  di  cui  all'art.  16  della
 legge   n.   865/1971,   in   quanto  privo  di  qualsiasi  specifica
 correlazione con le caratteristiche essenziali e con la  destinazione
 economica degli immobili espropriati.
    Per  effetto  della ulteriore dichiarazione di incostituzionalita'
 della legge 29 luglio 1980, n. 385, con cui era stato  stabilito  che
 le   indennita'  di  esproprio  dovessero  essere  liquidate  in  via
 provvisoria secondo  i  medesimi  criteri  previsti  dalla  legge  n.
 865/1971, salvo il conguaglio effettuato in base ad apposita legge da
 emanarsi entro un anno (il termine e' stato, poi, prorogato con d.-l.
 29  maggio  1982,  n.  298, convertito nella legge 29 luglio 1982, n.
 481, e con legge 23 dicembre 1982, n. 943), si e' prodotto  un  vuoto
 legislativo  che,  in mancanza di un intervento del Parlamento per il
 ripristino dell'organicita' del sistema, ha spinto la  giurisprudenza
 a  svolgere  un  ruolo di supplenza al fine di colmare le lacune e di
 ricomporre le nuove basi del regime delle espropriazioni.
   In  una simile opera di ricostruzione sistematica della disciplina,
 va registrata una piena concordanza tra gli  interventi  della  Corte
 costituzionale  e della Corte di cassazione, le cui posizioni possono
 essere  sintetizzate  nei  seguenti  punti:   a)   le   pronunce   di
 incostituzionalita'  hanno  determinato  la  caducazione  dei criteri
 fissati dalla legge n. 865/1971 soltanto per le aree con destinazione
 edificatoria,  mentre  per le aree con destinazione agricola continua
 ad applicarsi il criterio del valore  agrario  medio  previsto  dalla
 stessa  legge  (Corte  costituzionale  21  dicembre 1985, n. 355 e 30
 luglio 1984, n. 231; Cass. 20 gennaio 1988, n. 402; Cass. 15  gennaio
 1987,  n.  253; Cass. 16 gennaio 1986, n. 226; Cass. 24 ottobre 1984,
 n.  5401);   b)   a   seguito   delle   indicate   dichiarazioni   di
 incostituzionalita', l'indennita' dovuta per le aree edificabili deve
 essere liquidata in base al criterio del valore venale o  di  mercato
 dell'immobile  stabilito  dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n.
 2359, che, avendo  carattere  generale,  e'  stata  derogata,  e  non
 abrogata,  dalla  legge  n. 865/1971 (Corte costituzionale 9 novembre
 1988, n. 1022; Cass. 14 ottobre 1988, n. 5599; Cass. 28 aprile  1988,
 n.  3202;  Cass.  16  marzo 1987, n. 2688; Cass. 26 febbraio 1987, n.
 2035; Cons. Stato, sez. IV, 10 dicembre 1986, n. 831).
    In un siffatto tessuto normativo, ricostruito dalla giurisprudenza
 costituzionale e di legittimita' per eliminare i  vuoti  verificatisi
 nell'ordinamento,  si e' inserita la legge 23 luglio 1985, n. 372, il
 cui art. 5, quinto comma, dispone che  per  le  espropriazioni  degli
 immobili  compresi  nel  comprensorio  di Capocotta l'indennita' deve
 essere determinata in base all'art. 13 della legge 15  gennaio  1885,
 n.   2892,  calcolando  la  media  del  valore  venale  e  dei  fitti
 dell'ultimo  decennio  o,  in  difetto,  dell'imponibile  netto  agli
 effetti delle imposte sui terreni e sui fabbricati.
    Ad  avviso  di  questo  collegio,  l'individuazione di un criterio
 indennitario per una specifica e determinata  categoria  di  beni  (e
 cioe'  per  gli  immobili  inclusi nel comprensorio di Capocotta) da'
 origine ad una discrepanza dalla  disciplina  generale  che,  per  il
 fatto di non essere giustificata da ragionevoli motivi, si risolve in
 un trattamento arbitrario e discriminatorio che vulnera il  principio
 di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
    A ben vedere, con il richiamo alla legge n. 2892/1885, la legge n.
 372/1985 si e' discostata dal principio di unitarieta'  del  criterio
 di determinazione dell'indennita', espressamente recepito dalla legge
 27 giugno 1974, n. 247, per tornare alla scelta di criteri  di  volta
 in   volta  variabili  in  funzione  dell'opera  cui  e'  preordinata
 l'espropriazione, di guisa che, in un simile sistema, la  misura  del
 ristoro  spettante  all'espropriato  e'  fatta dipendere, nelle varie
 forme di espropriazione, non da valori economici inerenti alla natura
 e  alla  destinazione  dei beni, ma unicamente dai diversi fini per i
 quali viene autorizzata l'espropriazione.
    Ne consegue che la perdita di beni aventi medesime caratteristiche
 e destinazione economica risulta coperta da un ristoro  che  varia  a
 seconda  delle  finalita'  in  vista  delle  quali  e' stata disposta
 l'esproriazione: nel caso  di  specie,  l'applicazione  dell'art.  5,
 quinto  comma, della legge n. 372/1985 comporta che l'indennita' deve
 essere liquidata in misura pari alla semisomma tra  valore  venale  e
 fitti  del  decennio  per  il solo fatto della inclusione del terreno
 entro i confini del comprensorio di Capocotta indicati  dall'art.  5,
 terzo   comma,   della   stessa   legge,  mentre  per  altri  terreni
 espropriati,  nonostante  l'identita'   di   caratteristiche   e   di
 destinazione,  dovrebbero  liquidarsi  indennizzi diversi per la sola
 ragione  che  le  espropriazioni  sono  dirette  a  realizzare   fini
 differenti. Al riguardo va precisato che nel caso in esame l'indicata
 disparita' di trattamento e' riscontrabile tanto nell'ipotesi in  cui
 i terreni abbiano attitudine edificatoria secondo i vigenti strumenti
 urbanistici, come sostiene l'opponente, quanto  nell'ipotesi  in  cui
 essi   abbiano   destinazione   agraria,   giacche'  nel  primo  caso
 l'indennita' corrisponderebbe al valore venale del bene e nel secondo
 al  valore agricolo medio: con la conseguenza che per terreni vicini,
 siti nella stessa zona di Capocotta e con identiche  caratteristiche,
 la   misura   dell'indennita'   varierebbe  in  relazione  alla  sola
 circostanza della inclusione o meno nell'area delimitata dall'art. 5,
 terzo comma, della legge 23 luglio 1985, n. 372.
    Dalle  precedenti  riflessioni  si  evince che la disciplina posta
 dall'art.  5,  quinto  comma,  di  tale  testo  normativo  non   puo'
 considerarsi  in sintonia col canone di ragionevolezza e di coerenza,
 che trova espressione nel principio di uguaglianza sancito  dall'art.
 3  della  Costituzione,  e  contribuisce,  anzi,  ad acuire le aporie
 dell'attuale sistema delle espropriazioni dando vita  ad  irrazionali
 discriminazioni.
    L'opinione  e'  avvalorata dal recente orientamento della Corte di
 cassazione, che ha perspicuamente osservato  che  dalle  sentenze  n.
 5/1980   e   n.   223/1983   della   Corte   costituzionale   risulta
 inequivocamente delineato il profilo di incostituzionalita' insito in
 un  regime  che  prevede  diversi  criteri  indennitari per i singoli
 settori  espropriativi,  aggiungendo,  a  chiare  lettere,  che   una
 valutazione   discriminatoria,   in  contrasto  con  l'art.  3  della
 Costituzione "si ripresenterebbe immediatamente ove si ritenesse come
 chiede  la  ricorrente  pubblica  amministrazione  -  che  beni dalle
 caratteristiche  identiche   o   analoghe   andrebbero   diversamente
 indennizzati  a  seconda delle diverse finalita' dell'espropriazione"
 (Cass. 14 ottobre 1988, n. 5599).
    In   definitiva,  tenuto  anche  conto  dei  rilievi  esposti  nel
 precedente  punto  3),  va   riconosciuto   che   la   questione   di
 costituzionalita'  non  scaturisce dal fatto che la legge n. 372/1985
 ha determinato l'indennita' di esproprio  mediante  il  richiamo  del
 contenuto  dell'art.  13  della  legge  15  gennaio 1885, n. 2892, ma
 dall'avere  limitate  tale  criterio  -  senza  evidenziare  elementi
 discriminanti  -  alla  specifica espropriazione avente ad oggetto le
 aree comprese  nella  tenuta  di  Capocotta  e  in  funzione  di  una
 determinata  finalita'  (ampliamento  della  tenuta  presidenziale di
 Castelporziano).
    Pertanto,  deve  dichiararsi  la  non manifesta infondatezza della
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5,  quinto  comma,
 della  legge 23 luglio 1985, n. 372, in riferimento all'art. 3, primo
 comma, della Costituzione,  e  devono  pronunciarsi  i  provvedimenti
 previsti  dall'art.  23, secondo e quarto comma, della legge 11 marzo
 1953, n. 87.