LA CORTE D'APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile di prima istanza iscritta al n. 3105 di ruolo generale per gli affari contenziosi dell'anno 1988, posta in deliberazione all'udienza collegiale del 31 maggio 1989, vertente tra la S.r.l. Immobiliare Fondazione Capocotta in persona del suo legale rappresentante, amministratore unico rag. Ruggiero Moscatelli rappresentata e difesa per procura a margine dell'atto di citazione e di opposizione dagli avvocati Lionel Ceresi, Pietro Cattaneo, Giorgio Pinotti, Leonardo Cattanei di Milano e Vincenzo Marone, presso il quale ultimo e' elettivamente domiciliata in Roma, via Germanico n. 197, opponente, contro: 1) Ministero delle finanze, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avvocatura generale dello Stato presso la quale e' domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, opposto; 2) Prefetto di Roma, contumace. Oggetto: Opposizione alla stima di indennita' di esproprio; Esaminati gli atti del procedimento civile n. 3105/1988 r.g. avente ad oggetto l'opposizione alla stima di indennita' di espropriazione; Letti gli atti difensivi delle parti; O S S E R V A 1. - La vicenda espropriativa che forma oggetto del presente processo trae origine dalla legge 23 luglio 1985, n. 372, che, all'art. 5, dispone che alla dotazione immobiliare del Presidente della Repubblica, di cui all'art. 84, ultimo comma della Costituzione, e' conferita la tenuta di Capocotta ad integrazione della adiacente tenuta di Castelporziano gia' in dotazione del Presidente della Repubblica (primo comma). Lo stesso art. 5, dopo avere stabilito che l'ampliamento della tenuta di Castelporziano e' dichiarato di pubblica utilita' e le relative opere sono dichiarate indifferibili e urgenti (secondo comma), autorizza l'espropriazione dei beni compresi nell'area delimitata in base ai confini indicati nella stessa legge (terzo comma) e prescrive che l'indennita' di espropriazione e' determinata in base all'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (quinto comma), richiamando, per quanto non diversamente previsto, le norme di cui alla legge 25 giugno 1865, n. 2359 (sesto comma). Con l'opposizione, la cui cognizione e' attribuita a questa Corte dall'art. 5, ottavo comma, della citata legge n. 372/1985, e' stata sollevata la questione di legittimita' costituzionale della disposizione contenuta nel quinto comma dell'art. 5 che, ai fini della determinazione dell'indennita' di esproprio, rende applicabili i criteri dettati dall'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n. 2892: quest'ultima disposizione stabilisce, com'e' noto, che l'indennita' dovuta ai proprietari degli immobili espropriati sara' determinata sulla media del valore venale e dei fitti coacervati dall'ultimo decennio o, in difetto, dell'imponibile netto agli effetti delle imposte sui terreni e sui fabbricati. Premesso che la questione e' sicuramente rilevante nel presente giudizio, in quanto ha diretta e immediata influenza sull'applicazione dei criteri in base ai quali deve liquidarsi l'indennita' di esproprio e, quindi, sulla definizione della causa di opposizione alla stima, deve sottolinearsi che un primo profilo di incostituzionalita' e' stato prospettato con riferimento all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, essendo stato sostenuto dall'opponente che l'attribuzione di una indennita' inferiore a quella corrispondente al valore di mercato dell'immobile risulta in contrasto con il principio costituzionale sancito dalla predetta norma secondo cui "la proprieta' privata puo' essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale". Il dubbio di incostituzionalita' non ha giuridica consistenza e la relativa questione e' manifestamente infondata nei termini sopra enunciati. La giurisprudenza della Corte costituzionale ha costantemente interpretato il termine "indennizzo", che figura nella citata norma, in termini tali da escludere che esso debba necessariamente corrispondere al valore venale del bene espropriato, secondo il criterio accolto dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359. Gia' a partire dalla sentenza n. 61 del 25 maggio 1957, la Corte ha chiarito che la necessita' di coordinazione col pubblico interesse comporta che l'indennizzo non puo' significare integrale risarcimento, ma soltanto il massimo di contributo e di riparazione che, nell'ambito degli scopi di interesse generale, la pubblica amministrazione puo' garantire all'interesse privato: ditalche' e' rimessa al legislatore ordinario la valutazione comparativa di tali interessi e del modo in cui pervenire al massimo della rispettiva soddisfazione sulla base della ponderazione di elementi tecnici, economici, finanziari, politici. E' stato, peraltro, precisato che il potere discrezionale del legislatore ordinario incontra un limite nell'esigenza che la misura dell'indennizzo non sia puramente simbolica, atteso che in una siffatta ipotesi l'indennizzo sarebbe sostanzialmente inesistente e la norma colliderebbe inevitabilmente con il precetto contenuto nell'art. 42, terzo comma, della Costituzione. I principi affermati nella sentenza n. 61/1957 sono stati ribaditi nella successiva produzione giurisprudenziale della Corte costituzionale con la quale l'identificazione dell'ambito di operativita' della garanzia che presidia il diritto dell'espropriato e' stata compiuta sottolineando la necessita' che l'indennizzo sia "congruo", "equo", "adeguato", "non irrisorio" (Corte costituzionale 9 luglio 1959, n. 41; 8 luglio 1969, n. 115; 24 giugno 1976, n. 155; 6 dicembre 1977, n. 138). Gli sviluppi di tale linea interpretativa hanno condotto alla nota pronuncia n. 5 del 30 gennaio 1980 con cui, nel dichiarare l'illegittimita' costituzionale delle norme contenute nella legge 22 ottobre 1971, n. 865, che recepiscono il criterio del valore agricolo medio per la determinazione dell'indennita' di esproprio, la Corte costituzionale ha precisato che "l'indennizzo assicurato all'espropriato dall'art. 42, terzo comma, della Costituzione, se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l'interesse che l'espropriazione mira a realizzare - non puo' essere tuttavia fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica ma deve rappresentare un serio ristoro", dovendo essere determinato con riferimento alle caratteristiche essenziali e alla destinazione economica del bene espropriato. Le medesime linee argomentative costituiscono il supporto delle piu' recenti decisioni della Corte costituzionale nelle quali l'indicazione dell'esigenza insopprimibile del serio ristoro a favore del soggetto che subisce l'espropriazione e' accompagnata dalla precisazione che questo non deve necessariamente tradursi nell'attribuzione dell'integrale valore effettivo del bene (Corte costituzionale 21 dicembre 1985, n. 355; 30 luglio 1984, n. 231; 19 luglio 1983, n. 223). 2. - La scelta del criterio per la determinazione dell'indennita' di esproprio degli immobili compresi nella tenuta di Capocotta, compiuta con l'art. 5, quinto comma, della legge 23 luglio 1985, n. 372, non appare in contrasto con la disciplina posta dall'art. 42, terzo comma, della Costituzione a tutela del diritto all'indennizzo riconosciuto all'espropriato. Occorre premettere che non ha fondamento la censura rivolta alla legge n. 372/1985 che, facendo richiamo all'art. 13 della legge n. 2892 del 1885 sul risanamento di Napoli, sarebbe inficiata dal vizio di eccesso di potere legislativo per avere ripristinato disposizioni ormai abrogate (come, appunto, quella per Napoli) e per avere sovvertito l'ordine delle fonti del diritto, determinando, in modo surrettizio e indiretto, la reviviscenza di quelle disposizioni mediante una legge che ad esse fa riferimento e la cui vigenza presuppone. Anche a non voler tener conto della disparita' di opinioni esistente in dottrina sulla figura dell'eccesso di potere legislativo e dell'estrema cautela riscontrabile sullo stesso tema nelle posizioni della giurisprudenza, non sembra dubbia l'insussistenza del vizio denunciato essendo evidente che dal sistema su cui e' imperniata la gerarchia delle fonti del diritto non possono inferirsi limiti che precludano al legislatore ordinario di ripristinare la vigenza di norme gia' abrogate sia attraverso il fenomeno della vera e propria reviviscenza che mediante l'emanazione di una nuova disciplina, autonoma nel fondamento formale ancorche' in tutto ricalcata sul contenuto di disposizioni precedentemente abrogate. In una siffatta situazione potrebbe configurarsi una ipotesi di illegittimita' costituzionale soltanto se il legislatore facesse rivivere norme gia' dichiarate incostituzionali dalla Corte, essendo stato chiarito che dal primo comma dell'art. 136 della Costituzione deriva che "le decisioni di accoglimento hanno per destinatario il legislatore stesso, al quale e', quindi, precluso non solo il disporre che la norma dichiarata incostituzionale conservi la propria efficacia, bensi' il perseguire e il raggiungere, anche se indirettamente, esiti corrispondenti a quelli gia' ritenuti lesivi della Costituzione" (Corte costituzionale 19 luglio 1983, n. 223; 30 maggio 1963, n. 73). L'art. 5, quinto comma, della legge n. 372/1985 non puo' considerarsi, tuttavia, inficiato da un simile vizio di incostituzionalita' in quanto i criteri dettati dall'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n. 2892, espressamente recepiti alla predetta disposizione, hanno superato il vaglio del giudizio della Corte costituzionale e sono stati riconosciuti compatibili con il precetto ex art. 42, terzo comma, della Costituzione (Corte costituzionale 18 febbraio 1960, n. 5: l'infondatezza della questione di costituzionalita' e' stata dichiarata, incidentalmente, anche con la sentenza n. 15 del 22 gennaio 1976 concernente l'art. 14, ultimo comma, della legge 28 luglio 1967, n. 641, che, nel disciplinare le espropriazioni relative all'edilizia scolastica e universitaria, ha richiamato i criteri per la determinazione dell'indennita' di esproprio fissati dall'art. 13 della legge sul risanamento della citta' di Napoli). 3. - Va rilevato, a questo punto, che dubbi sulla legittimita' costituzionale dell'art. 5, quinto comma, della legge n. 372/1985 non possono essere giustificati neppure attraverso il richiamo dell'indirizzo giurisprudenziale col quale - mediante un'analisi ricostruttiva del vigente sistema normativo risultante dalle dichiarazioni di incostituzionalita' delle norme contenute nella legge n. 865/1971 - e' stato stabilito che per le aree con destinazione edificatoria l'indennita' deve essere liquidata sulla base del valore venale del bene espropriato, secondo la normativa generale posta dall'art. 39 della legge 25 giugno 1965, n. 2359: pertanto, ad avviso dell'opponente, nell'attuale quadro di riferimento normativo, dovrebbe considerarsi in conflitto con l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, qualsiasi disposizione di legge che determini la misura dell'indennita' di esproprio in un importo inferiore a quello corrispondente al valore di mercato del bene. La tesi non puo' essere condivisa nell'impostazione e negli sviluppi, in quanto muove dall'errato presupposto che l'evoluzione giurisprudenziale possa avere avuto incidenza innovativa sul contenuto della norma sancita dall'art. 42, terzo comma, della Costituzione, sino al punto da far coincidere, puramente e semplicemente, l'indennita' dovuta all'espropriato con il valore venale del bene: questo, cioe', indicato quale unico criterio indennitario dall'art. 39 della legge del 1865, sarebbe divenuto - nell'attuale sistema del "diritto vivente" - un principio costituzionale da cui il legislatore non potrebbe piu' discostarsi. Le argomentazioni esposte devono essere disattese per il fatto che confondono i diversi piani sui quali sono chiamati ad operare l'interprete e il legislatore e trascurano di tener conto della differente valenza giuridica attribuita, all'interno dell'ordinamento, ai rispettivi interventi. In particolare, e' da sottolineare che, a seguito delle pronunce di incostituzionalita' dei criteri di indennizzo fissati dalla legge n. 865/1971, l'opzione interpretativa compiuta dalla giurisprudenza a favore della sopravvivenza della legge generale del 1865 e del criterio del valore venale da essa sancito costituisce probabilmente l'unica soluzione possibile per l'interprete al fine di superare i vuoti normativi prodottisi nel sistema in dipendenza della perdurante inerzia del legislatore, essendo interdette, in sede giurisdizionale, le scelte discrezionali ritenute piu' idonee ad assicurare il bilanciamento degli interessi in conflitto e a individuare il punto di equilibrio nel quale possano essere contemperati l'interesse individuale dell'espropriato e l'interesse generale sotteso alla funzione sociale della proprieta'. Tuttavia, simili scelte, traducentisi nella possibilita' di riconoscere un indennizzo inferiore al valore effettivo del bene, non possono considerarsi precluse al legislatore, come, del resto, ha piu' volte ribadito la stessa Corte costituzionale, anche dopo la fondamentale pronuncia del 1980, quando ha precisato, in termini espliciti, che "la Corte non ha mai ritenuto, ne' intende ora affermare, che il serio ristoro, garantito al privato, debba corrispondere all'integrale valore effettivo del bene espropriato", sottolineando che "detto valore viene bensi' in rilievo, ma come criterio di riferimento, e non necessariamente come misura nella determinazione dell'indennita': il legislatore. . . gode, allora, entro i limiti stabiliti in Costituzione, della discrezionalita' di valutazione che giova a contemperare la scelta del valore effettivo con l'adozione di un qualche altro meccanismo normativo, sempre in modo, beninteso, che l'ammontare dell'indennizzo non scada sotto l'indispensabile livello di congruita'" (Corte costituzionale 30 luglio 1984, n. 231: cfr. altresi' Corte costituzionale 19 luglio 1983, n. 223, secondo cui l'indennizzo richiesto dal terzo comma dell'art. 42 della Costituzione non deve essere necessariamente pari al giusto prezzo di mercato secondo la prescrizione dell'art. 39 della legge n. 2359/1865, essendo sufficiente la previsione di un ristoro serio). Su questa stessa linea e', del resto, collocata anche la giurisprudenza della Corte di cassazione che, nell'affermare che l'art. 39 della legge del 1865 non e' in contrasto con l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, ha precisato, conformemente al costante indirizzo della Corte costituzionale, che tale precetto costituzionale affida al legislatore ordinario la concreta quantificazione dell'indennizzo, fra un limite minimo, rappresentato da un'apprezzabile e non simbolica compensazione della perdita del bene, ed un limite massimo, rappresentato dall'effettiva entita' di tale perdita (Cass. 3 giugno 1988, n. 3785; 26 gennaio 1988, n. 671; 11 agosto 1982, n. 4525). Cosi' individuato l'effettivo contesto normativo al cui interno deve essere condotto il giudizio di non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale del quinto comma dell'art. 5 della legge n. 372/1985, va rilevato che tale disposizione ha recepito un criterio di determinazione dell'indennita' di esproprio (media tra il valore venale del bene e i fitti dell'ultimo decennio o, in difetto, l'imponibile netto ai fini delle imposte sui terreni o sui fabbricati) che non puo' considerarsi in collisione con la norma ex art. 42, terzo comma, della Costituzione, non potendo certamente qualificarsi come indennizzo meramente simbolico, apparente, irrisorio, non serio, secondo le diverse aggettivazioni ricorrenti nelle decisioni della Corte costituzionale per definire il contenuto e l'ambito di operativita' della garanzia costituzionale che assiste il diritto all'indennita' di esproprio. In tale prospettiva, deve altresi' precisarsi che il riferimento al valore venale del bene espropriato, assunto quale uno dei parametri nella media del calcolo dell'indennita', non solo esclude che questa possa ridursi ad un valore monetario simbolico e assolutamente incongruo, ma ne assicura, nel contempo, l'aderenza alle specifiche caratteristiche del bene, in se' considerato. Al riguardo, e' opportuno richiamare le considerazioni svolte dalla stessa Corte costituzionale nella decisione con cui e' stata dichiarata infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 4, primo comma, del r.d.-l. 8 luglio 1931, n. 981, convertito nella legge 24 marzo 1932, n. 355, e dell'art. 1, terzo comma del d.-l. 29 marzo 1966, n. 128, convertito nella legge 26 maggio 1966, n. 366, nelle parti in cui stabiliscono che l'indennizzo da corrispondere per le espropriazioni disposte in attuazione dei piani particolareggiati nella citta' di Roma si liquida con un sistema di calcolo simile a quello previsto dalla legge del 1885 per il risanamento di Napoli (media del valore venale e dell'imponibile netto accertato alla data del predetto r.d.-l., capitalizzato ad un tasso dal 3,50% al 7% a seconda delle condizioni dell'edificio e della localita'). Infatti, nella sentenza predetta, la Corte ha osservato che "il riferimento al valore venale del fondo fuor di dubbio consente, sulla base di dati oggettivamente accertabili, che la liquidazione si avvicini adeguatamente alla realta' ad attualita' dei valori economici" (Corte costituzionale 30 luglio 1981, n. 160). Alla luce di tutti gli argomenti sin qui svolti, deve conclusivamente riconoscersi che e' manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 5, quinto comma, della legge 23 luglio 1985, n. 372, sollevata con riferimento all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, in quanto l'indennita' determinabile sulla base della predetta disposizione non appare in contrasto con l'effettiva portata della norma costituzionale. 4. - I dubbi sulla legittimita' costituzionale dell'art. 5, quinto comma, della legge n. 372/1985 appaiono, invece, non manifestamente infondati quando tale norma sia esaminata con riferimento all'art. 3 della Costituzione, atteso che, in tale diversa ottica, lo specifico criterio di determinazione dell'indennita' di esproprio, anche se in se' non contrastante col precetto ex art. 42, terzo comma, della Costituzione, sembra dare origine ad una disparita' di trattamento non giustificata da alcun ragionevole fondamento. Per una migliore comprensione della questione occorre rilevare che la legge 25 giugno 1865, n. 2359, aveva stabilito, in sintonia con l'art. 29 dello Statuto albertino, il principio generale secondo cui l'indennita' di espropriazione deve coincidere con il valore venale realizzabile dalla vendita del bene in una libera contrattazione. L'unitarieta' di detto criterio indennitario, cui era conformato il sistema delle espropriazioni, fu ben presto intaccata da successive leggi speciali con le quali furono adottati criteri divergenti da quello del valore venale: la prima, in ordine di tempo e di importanza, e' stata la legge 15 gennaio 1885, n. 2892, per il risanamento della citta' di Napoli. Il processo di diversificazione dei criteri di determinazione dell'indennita' ha avuto, poi, una progressiva accelerazione attraverso numerose deroghe introdotte, volta per volta, in relazione a singole categorie di opere pubbliche alle quali le espropriazioni erano finalizzate. Un momento fondamentale nella disciplina della materia e' rappresentato dall'entrata in vigore della legge 22 ottobre 1971, n. 865, modificata dalla legge 28 gennaio 1977, n. 10, che ha reso omogenei i criteri indennitari stabilendo il principio che l'indennita' deve essere determinata sulla base del valore agricolo medio dell'immobile, anche per le aree comprese nei centri urbani. Tale criterio, applicabile originariamente soltanto alle espropriazioni realizzate per le finalita' indicate nell'art. 9 della stessa legge n. 865/1971, con legge 27 giugno 1974, n. 247, e' stato esteso a tutte le espropriazioni comunque preordinate alla realizzazione di opere o di interventi da parte dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni o di altri enti pubblici o di diritto pubblico, anche non territoriali. Con le leggi del 1971 e del 1974 e' stato, quindi, attuato un regime giuridico unitario in materia di indennita' di esproprio, conformemente agli auspici di una larga parte della dottrina, che aveva segnalato da tempo, in posizione critica rispetto agli interventi della Corte costituzionale, che la pluralita' dei criteri indennitari, distinti sulla sola base delle singole opere pubbliche da realizzare, si traduceva in vere e proprie violazioni del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. Tale assetto normativo ha subi'to profonde modificazioni a seguito della piu' volte citata sentenza della Corte costituzionale n. 5/1980, con cui e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale del criterio del valore agricolo medio, di cui all'art. 16 della legge n. 865/1971, in quanto privo di qualsiasi specifica correlazione con le caratteristiche essenziali e con la destinazione economica degli immobili espropriati. Per effetto della ulteriore dichiarazione di incostituzionalita' della legge 29 luglio 1980, n. 385, con cui era stato stabilito che le indennita' di esproprio dovessero essere liquidate in via provvisoria secondo i medesimi criteri previsti dalla legge n. 865/1971, salvo il conguaglio effettuato in base ad apposita legge da emanarsi entro un anno (il termine e' stato, poi, prorogato con d.-l. 29 maggio 1982, n. 298, convertito nella legge 29 luglio 1982, n. 481, e con legge 23 dicembre 1982, n. 943), si e' prodotto un vuoto legislativo che, in mancanza di un intervento del Parlamento per il ripristino dell'organicita' del sistema, ha spinto la giurisprudenza a svolgere un ruolo di supplenza al fine di colmare le lacune e di ricomporre le nuove basi del regime delle espropriazioni. In una simile opera di ricostruzione sistematica della disciplina, va registrata una piena concordanza tra gli interventi della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, le cui posizioni possono essere sintetizzate nei seguenti punti: a) le pronunce di incostituzionalita' hanno determinato la caducazione dei criteri fissati dalla legge n. 865/1971 soltanto per le aree con destinazione edificatoria, mentre per le aree con destinazione agricola continua ad applicarsi il criterio del valore agrario medio previsto dalla stessa legge (Corte costituzionale 21 dicembre 1985, n. 355 e 30 luglio 1984, n. 231; Cass. 20 gennaio 1988, n. 402; Cass. 15 gennaio 1987, n. 253; Cass. 16 gennaio 1986, n. 226; Cass. 24 ottobre 1984, n. 5401); b) a seguito delle indicate dichiarazioni di incostituzionalita', l'indennita' dovuta per le aree edificabili deve essere liquidata in base al criterio del valore venale o di mercato dell'immobile stabilito dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, che, avendo carattere generale, e' stata derogata, e non abrogata, dalla legge n. 865/1971 (Corte costituzionale 9 novembre 1988, n. 1022; Cass. 14 ottobre 1988, n. 5599; Cass. 28 aprile 1988, n. 3202; Cass. 16 marzo 1987, n. 2688; Cass. 26 febbraio 1987, n. 2035; Cons. Stato, sez. IV, 10 dicembre 1986, n. 831). In un siffatto tessuto normativo, ricostruito dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimita' per eliminare i vuoti verificatisi nell'ordinamento, si e' inserita la legge 23 luglio 1985, n. 372, il cui art. 5, quinto comma, dispone che per le espropriazioni degli immobili compresi nel comprensorio di Capocotta l'indennita' deve essere determinata in base all'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n. 2892, calcolando la media del valore venale e dei fitti dell'ultimo decennio o, in difetto, dell'imponibile netto agli effetti delle imposte sui terreni e sui fabbricati. Ad avviso di questo collegio, l'individuazione di un criterio indennitario per una specifica e determinata categoria di beni (e cioe' per gli immobili inclusi nel comprensorio di Capocotta) da' origine ad una discrepanza dalla disciplina generale che, per il fatto di non essere giustificata da ragionevoli motivi, si risolve in un trattamento arbitrario e discriminatorio che vulnera il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. A ben vedere, con il richiamo alla legge n. 2892/1885, la legge n. 372/1985 si e' discostata dal principio di unitarieta' del criterio di determinazione dell'indennita', espressamente recepito dalla legge 27 giugno 1974, n. 247, per tornare alla scelta di criteri di volta in volta variabili in funzione dell'opera cui e' preordinata l'espropriazione, di guisa che, in un simile sistema, la misura del ristoro spettante all'espropriato e' fatta dipendere, nelle varie forme di espropriazione, non da valori economici inerenti alla natura e alla destinazione dei beni, ma unicamente dai diversi fini per i quali viene autorizzata l'espropriazione. Ne consegue che la perdita di beni aventi medesime caratteristiche e destinazione economica risulta coperta da un ristoro che varia a seconda delle finalita' in vista delle quali e' stata disposta l'esproriazione: nel caso di specie, l'applicazione dell'art. 5, quinto comma, della legge n. 372/1985 comporta che l'indennita' deve essere liquidata in misura pari alla semisomma tra valore venale e fitti del decennio per il solo fatto della inclusione del terreno entro i confini del comprensorio di Capocotta indicati dall'art. 5, terzo comma, della stessa legge, mentre per altri terreni espropriati, nonostante l'identita' di caratteristiche e di destinazione, dovrebbero liquidarsi indennizzi diversi per la sola ragione che le espropriazioni sono dirette a realizzare fini differenti. Al riguardo va precisato che nel caso in esame l'indicata disparita' di trattamento e' riscontrabile tanto nell'ipotesi in cui i terreni abbiano attitudine edificatoria secondo i vigenti strumenti urbanistici, come sostiene l'opponente, quanto nell'ipotesi in cui essi abbiano destinazione agraria, giacche' nel primo caso l'indennita' corrisponderebbe al valore venale del bene e nel secondo al valore agricolo medio: con la conseguenza che per terreni vicini, siti nella stessa zona di Capocotta e con identiche caratteristiche, la misura dell'indennita' varierebbe in relazione alla sola circostanza della inclusione o meno nell'area delimitata dall'art. 5, terzo comma, della legge 23 luglio 1985, n. 372. Dalle precedenti riflessioni si evince che la disciplina posta dall'art. 5, quinto comma, di tale testo normativo non puo' considerarsi in sintonia col canone di ragionevolezza e di coerenza, che trova espressione nel principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, e contribuisce, anzi, ad acuire le aporie dell'attuale sistema delle espropriazioni dando vita ad irrazionali discriminazioni. L'opinione e' avvalorata dal recente orientamento della Corte di cassazione, che ha perspicuamente osservato che dalle sentenze n. 5/1980 e n. 223/1983 della Corte costituzionale risulta inequivocamente delineato il profilo di incostituzionalita' insito in un regime che prevede diversi criteri indennitari per i singoli settori espropriativi, aggiungendo, a chiare lettere, che una valutazione discriminatoria, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione "si ripresenterebbe immediatamente ove si ritenesse come chiede la ricorrente pubblica amministrazione - che beni dalle caratteristiche identiche o analoghe andrebbero diversamente indennizzati a seconda delle diverse finalita' dell'espropriazione" (Cass. 14 ottobre 1988, n. 5599). In definitiva, tenuto anche conto dei rilievi esposti nel precedente punto 3), va riconosciuto che la questione di costituzionalita' non scaturisce dal fatto che la legge n. 372/1985 ha determinato l'indennita' di esproprio mediante il richiamo del contenuto dell'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n. 2892, ma dall'avere limitate tale criterio - senza evidenziare elementi discriminanti - alla specifica espropriazione avente ad oggetto le aree comprese nella tenuta di Capocotta e in funzione di una determinata finalita' (ampliamento della tenuta presidenziale di Castelporziano). Pertanto, deve dichiararsi la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5, quinto comma, della legge 23 luglio 1985, n. 372, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, e devono pronunciarsi i provvedimenti previsti dall'art. 23, secondo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.